Daniele Biacchessi
Editori Riuniti 1999
“Io provai per l’asfalto quello che dovettero provare i primi mormoni davanti al Gran Lago, che non sapevano ancora salato. Ero una statuina di polvere, perchè avevo tenuto il finestrino aperto per sentirmi più sicuro, non saprei dire perchè”
Cesare Fiumi
Di solito, per i lunghi viaggi, ci si alza all’alba.
Nessun rumore per strada. Solo cani che ritornano, lasciandosi guidare dall’olfatto. Rimane poco alle prime luci del giorno, quando l’ultimo lampione spegne il suo spicchio di notte. Nel viaggio sai due cose: quello che abbandoni, quello che ritrovi. Il resto è lasciato al caso, compresi quei cassetti svuotati alla rinfusa e il solito vecchio libro che non hai osato finire. Il viaggio ti fa assorbire il dolore di una solitudine e fa emergere i punti deboli, i nervi scoperti della vita. Così ti ritrovi su quell’asfalto, libero dai sogni, denso di virtù. Forse perchè ogni viaggio ha uno scopo. Anche il mio. Lo avevo in testa da anni. Cinquemila chilometri, in lungo e in largo per l’Italia. Volevo dimostrare quanto fosse difficile il rapporto tra uomo e natura. Vivere in un paese dove l’ambiente potesse rappresentare una risorsa e portare le prove di un degrado consumato nel tempo: le mille contraddizioni, i conflitti, gli interessi economici, le coperture da parte di organizzazioni criminali senza scrupoli. Presi la valigia e me ne andai che era ormai giorno.
Il raccordo anulare che gira intorno a Roma, è come una frontiera: dentro c’è la città, appena fuori la periferia. Il viaggio parte dai quartieri dormitorio, quelli situati ai margini delle metropoli, terre senza spazio nè tempo, dove la vita ha regole precise, rapporti di forza. Il traffico è pesante. I carabinieri vivono in un “fortino”, con tanto di filo spinato che gira lungo il perimetro della caserma. Nulla possono contro gli abusi e i reati più gravi. Alle dieci del mattino, quando gli uomini se ne sono andati a lavorare in città, rimangono lungo le strade donne con le borse della spesa e giovani con i motorini che girano apparentemente senza una meta. Molti di loro sono tossicodipendenti, consumano eroina e spendono duecentomila lire al giorno che fanno la fortuna dei clan locali, di quelli nordafricani e albanesi che si danno battaglia per controllare strade e piazze. Tor Bella Monaca è il respiro affannoso di mille motorini che cercano una felicità in vendita, un torpore che appiattisce e che rende tutto più cupo e incolore. Ricordo di esserci andato quando due ragazzi dei palazzoni tentarono una rapina ad una anziana signora, scesa dal treno. Lì accanto c’era un poliziotto che aveva estratto la pistola d’ordinanza. Uno dei due giovani, pure lui armato, lo aveva freddato con una calibro 7,65. Il poliziotto cadeva a terra ma riuscì ad esplodere un colpo contro il ragazzo.
Lo uccise, nel buio di Tor Bella Monaca. Il secondo rapinatore fuggì. Iniziò così la caccia all’uomo. Di notte,in un appartamento nei palazzoni,il padre convinse il giovane rapinatore sopravissuto, a costituirsi. “Devi consegnarti ai carabinieri. Se non trovi coraggio, ti ci porto io ma devi farlo, non ci puoi distruggere così”. Lo accompagnò dai carabinieri che era mattina presto. La notizia diventò pubblica e qualche giornale la mise perfino in prima pagina. Ma la gente dei palazzoni non amava i cronisti e gli inviati mandati sulla Casilina in cerca di storie. Vagai per ore,nel quartiere delle torri. Poi rintracciai il padre. Stava davanti alla caserma dei carabinieri. Non voleva parlare. Accanto a lui c’erano alcuni carabinieri,gli stessi che avevano messo a verbale il racconto lucido e spietato del figlio. Prima disse che “noi giornalisti siamo degli avvoltoi pronti a fare scoop”.Poi,davanti agli investigatori che ridevano, mi chiese soldi per l’intervista. “Devo pagare l’avvocato per tirare fuori mio figlio”. Pensai alla sua disperazione ma anche a quella freddezza che regna in ogni quartiere dell’abbandono. Sotto i palazzoni si aggirano strani personaggi, rifiutano il dialogo, guardano con tono minaccioso. Intanto il bar serve i caffè, si parla di calcio e di donne, dell’ultima motocicletta e di quell’auto che ha certe rifiniture. Più in là, c’è la parrocchia, un piccolo oratorio, con campi che sembrano orti e spianate di cemento trasformate in luoghi di sport. Il parroco di Tor Bella Monaca mostra con orgoglio la sua creatura, costruita in silenzio. “Il calcio sta tutto in quelle scarpe da pallone sporcate di fango, in qualche periferia urbana”. Ne va fiero di quel posto sottratto alla violenza. “Sono giovani che non hanno guida, sbandati senza lavoro. Qualcuno riesce a varcare quel portone che io tengo sempre aperto, si mischia ai miei ragazzi, almeno si diverte. Ma gli altri cosa fanno ? Dove vanno ?”. Qualcuno si inventa un cineforum, mostre fotografiche anche sul quartiere, concerti, iniziative culturali, forme di aggregazione nuove ma i risultati non si vedono. Quel torpore inghiotte Tor Bella Monaca che è sera, quando le piazze si popolano di spacciatori e l’onda lunga di mille motorini investe ogni cosa. Certe sere è un frastuono. Entrano a tutta velocità nei giardini, dove il verde è un optional e le panchine non hanno più assi di legno. Comprano l’eroina e poi spariscono per qualche ora. Ritornano con compact disc, autoradio, impianti di alta fedeltà presi in giro, giacconi, soldi di carta e di moneta, vecchi arnesi rubati. Scambiano sè stessi per una bustina. Di verde c’è ben poca traccia, gli alberi sono imbrigliati da contorni grigi in cemento, freddi, senza un’anima. Ma quel frastuono non mi è nuovo. A quell’ora sembra un concerto che proviene dai bordi delle città. E’ lo stesso che ho ascoltato più volte nel corso del viaggio a Quarto Oggiaro, Baggio, Quartiere Zen, Mirafiori, San Salvario, via Bianchi, Pilastro, Isolotto, Secondigliano. E’ il frastuono dei mille figli delle periferie d’Italia.