Daniele Biacchessi
Chiarelettere 2007
Una sera, al termine di uno dei miei spettacoli, un giornalista mi ha rivolto questa domanda: «Cosa vuol dire teatro narrativo civile?». Ci ho pensato, e gli ho risposto attraverso una storia. Accadeva molti anni fa dalle mie parti, sull’appennino tosco-emiliano, non lontano da Monte Sole e Marzabotto, di sera. La tavola era imbandita, la nonna era in cucina e preparava la crescentina fritta, i bambini correvano e gridavano, gli uomini giocavano a carte, il camino era acceso e si sentiva un forte odore di legna bruciata. A un certo punto la nonna e le altre donne portavano enormi vassoi: la crescentina fumava, c’erano porzioni abbondanti di salumi e formaggi, enormi bacili di insalata, il pane appena sfornato. Il nonno usciva lento dalla cantina, aveva tra le mani due bottiglie di vino rosso. Poi si sedeva a capo tavola. Tutti i commensali, bambini compresi, si sistemavano intorno a lui. Iniziavano le battute, le discussioni politiche, gli scherzi. Scene di vita quotidiana di una famiglia della provincia italiana negli anni Settanta. Appena finito di mangiare il nonno si alzava dalla sedia e si piazzava in un divano vicino al fuoco, gli uomini sparecchiavano, le donne lavavano i piatti. Il nonno accendeva la pipa, poi prendeva un bicchiere e si versava la grappa, guardava i bambini e, con voce forte, diceva: «Allora…». Iniziava così una storia del passato, quando sul crinale dell’appennino si combatteva una guerra. Prato liberata dagli americani, Bologna ancora in mano ai nazifascisti, e in mezzo c’erano i partigiani del gruppo Stella Rossa, tutti comunisti. Il nonno descriveva in modo minuzioso le serate a lume di candela passate ad ascoltare clandestina- mente i messaggi in codice di Radio Londra, lo scalpiccio di stivali dei soldati nazisti sulla ghiaia, fuori dalle case, il vento forte che passava tra i vetri, gli spari, le urla, la morte. Ogni sera la storia che il nonno raccontava era così uguale ma così diversa. C’era sempre un elemento in più che rendeva il suo racconto affascinante e mai noioso: un taglio di luce particolare, un gioco di ombre, un temporale, il chiarore delle stelle, un odore, soprat- tutto la passione. Fino a quando quelle storie saranno raccontate alle generazioni future ci sarà memoria. Se il filo si spezza, si perde la conoscenza del passato, non si comprende il presente e non si potrà vivere il futuro.
Ecco, ogni sera una storia uguale ma raccontata in modo diverso, perché differenti sono volta a volta le si- tuazioni, le emozioni, i teatri delle città, gli spettatori. È il teatro civile che porto in scena dal 2004 sui palcosce- nici italiani con l’inseparabile amico e sassofonista Michele Fusiello e con il grande pianista jazz Gaetano Liguori. La memoria è il filo conduttore che mette insieme i testi degli spettacoli, quelli rivisti e pubblicati in questo libro che intende ricostruire in presa diretta, attraverso storie e personaggi, l’Italia delle verità negate. Sono, quelle qui raccontate, vicende molto diverse tra loro, ma tenute insieme da un comune denominatore che è quello della giustizia incompiuta.
Il mio obiettivo è anzitutto quello di raccontare storie dimenticate, archiviate, perché il nostro è un paese in cui il passato non passa mai, e condiziona ancora oggi la politica e le sue Istituzioni. Per mantenere viva la memoria occorre guardare il Novecento con gli stessi occhi dei suoi protagonisti, come ho fatto, ad esempio, ne La storia e la memoria, racconto delle stragi impunite in tempo di guerra e in tempo di pace, centinaia di repliche in Italia e all’estero. Da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, passando per Portella della Ginestra, piazza Fontana, treno Italicus, Questura di Milano, piazza della Loggia a Brescia, Rapido 904. Ancora nel 2007 per molti di quei morti non c’è giustizia. E altri hanno avu- to giustizia a dir poco in ritardo, come i tanti morti ammazzati di Marzabotto e dei comuni vicini che il revisio- nismo voleva fossero risultato di una rappresaglia in risposta alle azioni altrettanto violente dei partigiani della Stella Rossa. Solo oggi, e per la precisione nel gennaio 2007, si legge nella motivazione della sentenza di un tribunale italiano che quella fu «una strage freddamente pianificata a tavolino, sulla base della arbitraria e ingiusta equiparazione tra civili e partigiani. La furia nazista non operò alcuna distinzione tra le persone, gli ordini impartiti erano chiari: uccidere tutti e distruggere tutto». Ci sono voluti più di cinquant’anni. E i condannati hanno oggi più di ottant’anni.
Ogni mia opera nasce e si trasforma dopo una lunga fase di documentazione: leggo gli atti processuali, i documenti, soprattutto, come si dice, consumo le suole delle scarpe. Ascolto i racconti dei protagonisti. È stato così per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, l’operazione sulla memoria più importante che abbia fatto. In quel caso l’ho vissuta dal vivo perché ero sul posto poco dopo l’esplosione. Quando l’Associazione dei parenti delle vittime mi ha commissionato il libro Un attimo… vent’anni, uscito per la casa editrice bolognese Pendragon nel 2001, ero orgoglioso. È stato una sorta di mandato di rappresentanza: «Tu che sei giornalista, hai accesso alle fonti, tu che puoi…», mi dicevano. Si può dire che in certi casi io faccio quasi da tramite. Ma per parlare con le vittime bisogna togliersi i panni dell’attore, del giornalista, dello scrittore. Il vero teatro civile è più doloroso, bisogna lasciarsi coinvolgere. Non si può fare tutto questo se non si scava un profondo bu- co nero nel cuore.
Nel racconto dei protagonisti emerge la solitudine, l’abbandono da parte delle Istituzioni. È un sentimento che provano anche i superstiti e i parenti delle vittime quando le richieste di verità e giustizia vengono disattese dallo Stato, distante e impenetrabile. È da qui, dalle loro voci, che parte la sfida della memoria, e così i miei spettacoli si trasformano in album di ricordi.
Storie d’Italia, l’ultimo testo che ho scritto e interpretato, mette insieme in un’unica narrazione vicende italiane diverse tra loro. Portella della Ginestra, dove nell’immediato dopoguerra i contadini chiesero ciò che spettava loro, il diritto di possedere la terra, e i latifondisti alleati ai fascisti e alla mafia risposero mandando il primo plotone d’esecuzione in tempo di pace. Poi racconto la storia di un eroe borghese, Giorgio Ambrosoli, avvocato monarchico e conservatore, ucciso perché era venuto a conoscenza, attraverso la lettura dei libri contabili, dei legami finanziari tra Cosa Nostra e la Banca Privata di Michele Sindona. L’uomo della collina è invece un quadro teatrale dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Poi c’è la storia vera, scritta insieme al poeta Raja Marazzini, dell’amore «mancato» tra due fidanzati fiorentini, mancato perché lui morirà nell’esplosione in via dei Georgofili, che oltre alla Galleria degli Uffizi colpì anche un palazzo adiacente. Il quadro include anche la figura dell’imprenditore Libero Grassi che muore senza mai aver abbassato la testa davanti ai boss della mafia.
Quel giorno a Cinisi è uno spettacolo nato da una fittissima corrispondenza con Umberto Santino, direttore del Centro siciliano di documentazione Peppino Impastato, che ha corretto, aggiunto, smontato e rimontato il testo. È andato in scena la prima volta il 7 maggio 2006, a Cinisi, il paese di Peppino Impastato, in occasione dell’anniversario della sua morte. Sul palcoscenico Santino mi ha definito, in dialetto, un cantastorie. Ecco, mi ci ritrovo molto, perché intendo il cantastorie come un narratore che «vive» il suo stesso racconto. Quella è stata un’esperienza straordinaria: nella piazza c’era un silenzio assoluto, quasi imbarazzante. Questo a dimostrazione che si può chiedere giustizia anche sopra il palco di un teatro: un microfono, un sassofono, un pianoforte, le immagini in movimento, i documenti sonori d’archivio. Si può chiedere giustizia sopra una pedana nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna e davanti al Museo di Sant’Anna di Stazzema. Perché i luoghi contano, e perché nulla vada mai dimenticato.